26 maggio 2014

Epilogo

Da qualche parte sopra l'Atlantico, 24 maggio 2014

Finito. Posso dichiararmi sopravvissuto a un trimestre negli Stati Uniti d'America.

Sono stati mesi di attività, creatività, studio, cibo scadente, scoperte, amicizie profonde. E ammetto di non essere riuscito a trattenere le lacrime, durante i saluti e il viaggio verso l'aeroporto... Nel giro di qualche ora, nemmeno il tempo di metabolizzare, sono stato strappato da New Hampton come un cerotto vecchio e spedito via. Ora sono sull'Atlantico, in un aereo addormentato che corre incontro all'alba europea; il sonno non si è fatto vivo, spaventato com'è dalla ridda di pensieri dolceamari che mi attraversano. Cosa mi porto dietro? Cosa ho acquisito, esperito, rubato? La risposta è cangiante, riflette il colore dell'emozione in sottofondo. Tipo, adesso è rossofuoco: gli affetti che ho maturato, e che ovviamente si manifestano al massimo proprio mentre mi allontano. Devi perdere qualcosa, per capirne appieno il valore. Vecchio cliché, ma dolorosamente vero. I volti mi scorrono dietro agli occhi, sfrecciando insieme ai ricordi dei momenti passati con ognuno. Vorrei avere la possibilità, l'ultima, di tornare, solo per urlare in faccia a quelli che lascio di là che sono persone fantastiche e che sarà meglio che se lo mettano bene in testa, che gli voglio bene, che mi mancheranno più di quanto mi piaccia ammettere a me stesso. Loro sono stati il sale dei giorni e la terra sotto i piedi, e ora ho perso l'equilibrio. Ma va bene così: ogni minuto è valso la pena.

Ero in sintonia con la vita bucolica e al tempo stesso corroborante di quel posto. L'America rurale è un mondo a parte, vasto, lento, e ovviamente patriottico all'estremo. Strano popolo, gli Americani, totalmente americanocentrici; USA qua, USA lá, libertà, libertà ovunque! Plagio Gaber: libertà obbligatoria (per chi non l'avesse visto, il suo monologo "L'America" è spettacolare, oltre che accuratissimo). Sì, sono un po' ossimorici nel loro orgoglio, seguendo il loro liberalismo ben inscatolato; a onor del vero, però, gli insegnano ben poco del resto del mondo. Li salva la dedizione: ci mettono l'anima, in quello che fanno, qualunque cosa sia. C'è una ragione per cui Springsteen la chiama "land of hopes and dreams": l'apertura mentale, l'attitudine e la determinazione rendono l'America il campo ideale in cui piantare il seme del proprio sogno. E lo mettono bene in chiaro fin dalla scuola: scegli quello che vuoi fare, e fallo al massimo. Una particolarità dei professori è che incoraggiano, sia direttamente, sia col loro esempio personale, con l'atteggiamento con cui affrontano le giornate. Loro, e i compagni, hanno fatto sì che ritrovassi l'entusiasmo che avevo un po' perso, strada facendo, nel liceo italiano.

Forse quello che ho più amato sono state le materie artistiche. Trattate con la stessa identica importanza di quelle classiche; lì offrono la possibilità di formarsi a tutto tondo, accademicamente, artisticamente, e atleticamente. Certo, gli manca un po' di sano rigore, per non parlare della conoscenza generale e specifica, qualcosa che noi facciamo decisamente meglio. Loro preferiscono (metaforicamente parlando) mangiare tanto da un piatto solo che spiluccare da tutto il buffet come facciamo noi; però direi anche che noi spilucchiamo molto bene e offriamo di più. La differenza da noi la fa l'attitudine dello studente, in America le sue passioni. Davanti alla scelta di finire la scuola lì o in Italia, non ho avuto nessun dubbio: meglio tornare. Magari non potrò suonare o scrivere due ore ogni giorno, però avrò un sacco di tempo (e motivi) per farlo in college!

Conclusione? Questa gita fuori porta mi ha permesso di definirmi. Lontano da casa e dalle sicurezze, all'inizio potevo fare affidamento solo su me stesso: in un certo senso mi sono dilatato un po' in tutte le direzioni (girovita compreso...), mi sono scoperto e rafforzato. Mi sono affermato come persona; ho dovuto sparire per un po', per farlo. In un ambiente estraneo, o ti imponi, o soccombi alla marea. E penso di esserci riuscito: torno un po' più sicuro, più teso verso i miei obbiettivi. Non riesco a esprimere a parole quanto sia grato per tutto questo, verso tutti coloro che l'hanno reso possibile. Quello che mi hanno regalato è incalcolabile.

30 aprile 2014

Boston, Boston, take me in

Lo so, non ho aggiornato il blog per un mese. Scusatemi; il primo che ci rimane male sono io. La vita è stata un po' movimentata ultimamente, tra scuola, prove, eventi vari. Ho tenuto questo articolo in cantiere per due mesi solo perchè non ho avuto il tempo materiale per dedicarmici; adesso assomiglia un pochino a un lavoro di patchwork, però sono dell'idea che non si debba rimaneggiare qualcosa che ho scritto in un momento di ispirazione, neanche se ora non riflette più quello che penso. Quindi eccolo qui, riscaldato al microonde: spero che valga la pena di una scorsa!

8 marzo - Springbreak

Lo scuolabus mi lascia a South Station, nel cuore di downtown Boston. Immaginate: un deficiente in piedi in mezzo al marciapiede affollato, lo zaino sulle spalle con le cerniere che gemono, la chitarra a tracolla (strapiena di mutande e calzini) e due sacche della Stramilano, piene da scoppiare anche loro, che penzolano attaccate allo zaino. No, non avevo niente di meglio. Si, ho comprato una sacca un paio di giorni dopo... Però l'insieme era molto bohémienne!

Per prima cosa mi fermo davanti a una mappa, (you are here), e scopro che "here" è in una zona totalmente diversa da quella della casa della mia ospite, quindi mi incammino cigolando in direzione Boston Common. Durante tutto il tragitto dalla stazione al parco, passando per Summer e Winter St., mi sembra di essere in Corso Vittorio Emanuele senza il Duomo che mi spalleggia; la stessa cacofonia di persone indaffarate che si sfiorano passando via veloci, negozi, fast food (tanti fast food!), il mio riflesso che mi cammina accanto nelle vetrine. Finisce all'improvviso, e di botto mi si apre davanti il Common, spoglio e innevato; mi inoltro tra i sentieri e i rumori della cittá si attutiscono, come se mi fossi infilato dei tappi nelle orecchie.

Finito il parco, la sensazione di pace mi accompagna nella Back Bay. Avete presente le casette ordinate, tutte incastonate l'una di fianco all'altra, in piccole strade alberate, che confluiscono lentamente verso l'orizzonte? Ecco, la Back Bay è un'enorme scacchiera di viette così, un'oasi tranquilla tra le affollate Boylston e Newbury Street e il fiume Charles, ancora ghiacciato. È qui che ho la fortuna di stare, almeno per un po'; una volta sistemato, mi dedico all'esplorazione.

Boston è multiforme, cambiare zona significa cambiare totalmente architettura, negozi, ritmi. Correre lungo la Esplanade di fianco al fiume e andare a finire, mettiamo, nella old-fashioned Beacon Hill è come minimo disorientante; se poi si percorrono ancora un paio di isolati, ti si staglia davanti il modernissimo Downtown, tutto grattacieli, vetro e cromature. Un po' più a sud, e all'improvviso Chinatown; risalendo, di nuovo il Common. Ma la parte di gran lunga migliore sono i campus; essendo in gran parte una città universitaria, con qualcosa come 250.000 studenti, Boston è il posto più student friendly possibile... E si nota. L'atmosfera è giovanile, e giuro che in giro per la città non avrò visto più di una quarantina di persone over 30, probabilmente anche perchè sembra che tutto ruoti attorno agli universitari; una tessera di un college è una garanzia per i tassisti, un passaporto per qualsiasi teatro, un buono per i trasporti pubblici.

Le università... Non so se riuscirò a descrivere come ho vissuto le visite. Tenevo una media di un tour guidato al giorno, più una visitina di soppiatto a un qualche altro college per conto mio. Ogni campus ha la sua identità: si passa da quelli distribuiti tra i grattacieli di Downtown, a quelli composti da interi quartieri o zone di Boston. Le accomuna però l'atmosfera che si respira, un'elettrizzante miscuglio di dedizione e operosità. Uscivo dalle visite mentalmente affamato, come se avessi annusato un profumo deliziosamente carico di promesse... Quei tour mi hanno reso ancora più determinato a venire qui a studiare, hanno concretizzato un orizzonte indistinto.

7 aprile 2014

Educazione all'affettività

L'ambiente a scuola è un po' come quello di un paesino sperduto in campagna (immagine non troppo lontana dalla realtà, in effetti); più o meno tutti conoscono tutti, e nonostante la mescolanza molto forte si vengono a creare comunque dei gruppetti, mai chiusi, dettati dall'abitudine di sedersi in un certo posto in mensa oppure dal senso di fratellanza dei compagni di una qualche squadra, per esempio. Io bazzico spesso nella Family (la chiamano così), un gruppo di amici molto diversi tra di loro, accomunati da un forte affetto reciproco e dalla passione per il teatro, e tra le persone più fantasticamente genuine che io abbia incontrato finora. Entrare a fare parte della famiglia mi porta a scoprire le vite di ognuno; i ragazzi si conoscono tutti intimamente, e per una new entry come me è un sovraccarico di informazioni, storie e ricordi a cui vengo iniziato di botto.

Oggi ero seduto tra due seniors, un ragazzo e una ragazza di qui, lui regolarmente fidanzato e lei anche. Il ragazzo raccontava della sua visita alla prozia durante springbreak: lui la va a visitare e le parla dei college a cui stava pensando, e quella prima ancora di sentire i nomi gli dice lamentosamente "non andare in un college di soli maschi!". Il mio amico, stupito, gli chiede perchè, e lei risponde "perchè sennò diventi gay!" Ridiamo. Poi il ragazzo mi guarda sorridendo e dice "ero davvero tentato di dirle che mi piacciono anche i ragazzi!"

Boom. Ve lo aspettavate?

Io lo sapevo giá, e mi sono rimesso a ridere, dicendogli che avrei pagato per vedere la faccia della prozia; il suo sorriso si fa mesto, e mi dice che preferisce non dirle niente, per quieto vivere. Comunque, sua sorella, la sua ragazza e i suoi amici lo sanno, e tanto gli basta; non dice niente alla sua famiglia perché è tutto più facile, e vive serenamente, ma mi fa capire che cambierebbe ben poco anche se lo sbandierasse in giro. Interviene la ragazza, dicendo che anche lei ha detto solo a suo fratello di essere bisex. Ci metto un paio di secondi a metabolizzare questo mezzo outing, buttato fuori con sciolta naturalezza (non sapevo di lei); la guardo un po' stranito, ma già parla d'altro.

Inevitabilmente mi metto a fare i paragoni. Penso ai miei coetanei italiani che si forzano, che non si accettano quando non corrispondono alla titanica idea di "normale" (figurarsi poi per qualcosa come la sessualità); ragazzi e ragazze che si sentono sbagliati, e si tarpano le ali per poter restare a terra come gli altri. Poi butto un occhio ai ragazzi che so non essere strettamente etero (ce ne sono parecchi), seduti ai tavoli, rilassati, scherzosi, sorridenti, totalmente a loro agio.

Vi avverto, sto per partire per la tangente!

L'assenza di preconcetti vecchia scuola si sente parecchio, qui; uso la sessualità perché è l'esempio più eclatante, ma questa tolerance è (quasi) onnipresente. Razzismo, omofobia, intolleranza religiosa? È rimasto qualche rimasuglio in certi Stati del Sud, e sempre meno. L'apparente superficialità che può trasparire dagli usi americani nasconde potenti fondamenta ideologiche basate sull'accettazione e sull'unità. All'inizio ridevo del patriottismo esagerato che c'è qui, da bravo italiano disilluso, scherzavo sul loro accanirsi a ripetere che l'America sia la magica terra della libertà e dell'uguaglianza, ma ora mi rendo conto della verità dietro la bandiera. Ne hanno, di cui andare fieri; chino metaforicamente il capo. Qui inseguire il tuo sogno, se ne hai la possibilità, è una prerogativa.

Tiro le fila. Sto facendo esperienza di quella che dovrebbe essere l'intera nostra generazione, ovunque: unita, idealistica, forte, tesa al miglioramento, proiettata fiduciosamente verso un futuro migliore. Quando torno dovrò fare di nuovo i conti con un Paese che silenziosamente ti abitua all'accettare passivamente la realtà dei fatti, ad aborrire il diverso, a non provare nemmeno a deragliare dalla strada che (non) ci stanno tracciando; un Paese che ti confina mentalmente nella direzione di una vita meno eccezionale, più ordinaria. Esagero? Dal mio piccolo tutto questo lo vedo già a scuola, nei miei coetanei, nel disincanto che ci piove addosso come una doccia fredda.

Se la felicità sta nelle piccole cose, allora forse dobbiamo assicurarcele, quelle piccole cose, inseguirle instancabilmente finché non avremo migliorato almeno un pochino questo posto.

25 marzo 2014

Rerum vulgarium fragmenta

Un espatriato come me, non potendo avere internet sempre sul telefono, quando è in giro è sempre a caccia di reti wifi, e fa uno strano effetto scorrere la lista di quelle memorizzate sul telefono. Ogni rete è la traccia tangibile di un luogo, un momento. Un ricordo.

"SLCairport", dal viaggio nello Utah. Innumerevoli "attwifi" di Starbucks sparsi per il New England, e i "DDguest" di quando mi trascinavano a forza in un qualche Dunkin' Donuts. "MIT", uno scorcio della breve vita in confraternita; "Emerson GUEST", "BUguest", "BerkleeWireless", un lampo di tutti i college visitati. Il wifi di casa a New London, e quello della Opera House di Newport, dove ho ricevuto il mio battesimo come tecnico luci (memorabile per me, forse un po' meno per gli attori). La rete del Logan di Boston, che ho usato per rassicurare i miei appena atterrato.

E i ricordi si affollano, si intersecano davanti agli occhi. Incredibile come poco più di un mese mi abbia lasciato così tanto.

20 marzo 2014

Interstate 93

Sono su un coach, partito da Boston da circa mezz'ora in direzione New London, dove starò da un amico per un paio di giorni prima di tornare a scuola. Ho le cuffie nelle orecchie e On the Road di Kerouac aperto in grembo. Il mio vicino - uno studente in jeans e camicia, che probabilmente sta andando a visitare la sua famiglia - dorme, con la testa reclinata verso il corridoio; il resto del bus fa altrettanto, con l'eccezione del ticchettio della tastiera di un laptop.

Sono perso nel libro, ma a un certo punto qualcosa mi fa alzare lo sguardo, verso il finestrino. La Highway si srotola di fianco a me, le strisce gialli lampeggiano alternandosi al cemento cotto dal sole, i cartelli verdebianchi mi corrono incontro e poi scompaiono veloci come sono arrivati. La campagna scorre uniforme, brulla e punteggiata di sempreverdi, semicoperta di neve e cespugli secchi.

E all'improvviso arriva. Una consapevolezza, un nonsochè di incredibilmente potente e dolce al tempo stesso. Colpa dei film, forse, dei vari Kerouac e London e Guthrie e Krakauer, dei sogni che si acquattano in qualche anfratto dell'inconscio; sono solo, in un autobus in mezzo al New England, a migliaia di chilometri da casa. Assaporo la sensazione per un po' prima di darle un nome, senso di libertà. Non c'è spazio per la nostalgia in quello che provo, c'è gioia pura, progetti e sogni che si mescolano per diventare un tiepido tutt'uno che mi stringe lo stomaco. Voglia di fare, di andare, di inseguire quell'indistinto futuro all'orizzonte, di aggredire il mondo, metterlo sottosopra e scoprire cosa si nasconde. Infinite possibilità, opportunità, vite che mi si diramano davanti; e la consapevolezza che sono io il conducente, io l'artefice, io quello che può osare. E gratitudine, per l'incredibile fortuna che ho.

America... Forse inizio a capirti meglio.

18 marzo 2014

Husky Nation! (Breve storia di una prima impressione)

È tempo di dedicare due righe al campus. Si trova nel ridente paesello di New Hampton, New Hampshire; in effetti è più appropriato dire che costituisce il ridente paesello di New Hampton (NH) perché, obiettivamente, non c'è molto altro oltre al campus, un paio di case private, due distributori e un Dunkin' Donuts, immancabile in ogni sconosciuta località statunitense che si rispetti. Anzi, parlando di sconosciute località: notata l'assoluta mancanza di originalità dei nomi? Girando per le strade degli US minori (e a volte anche maggiori) sembra di essere sballottati da una parte all'altra del Vecchio Continente: Florence, Berlin, Vienna, Syracuse, Athens, Paris, Rome, perfino qualche Nazareth e Betlehem. Per non parlare delle ripetizioni: lo sapevate che quasi tutti gli stati hanno almeno uno Springfield?

Okay, forse sono fuori strada. Il campus. È veramente un posto magnifico: immerso nelle colline innevate (per ora) del New Hampshire, nella regione dei laghi (uno più bello dell'altro), con una vegetazione da far invidia alla Foresta Nera. In autunno dà il meglio di sé: le foglie che imbruniscono contrastano allegramente i sempreverdi sparsi con perfezione geometrica, formando dei giochi di colore stupendi. Gli edifici, più o meno antichi e più o meno ristrutturati (e tutti funzionanti perfettamente, con forse l'unica eccezione del mio caro Ebbels) sono bassi e imponenti, di sapore vittoriano con un retrogusto di candida rusticità. E la cosa migliore è che sia gli studenti, sia i docenti sono in sintonia col clima: si respira un'aria di gioviale rilassatezza e operosità, non in senso milanese, tutto frettoloso e nervoso, ma in senso americano, di determinazione. È una delle primissime cose che ho imparato ad apprezzare qui: non importa la posizione, il lavoro, i titoli, se sei appassionato e motivato difficilmente qualcuno ti sbarrerà il passo; ogni forma di lavoro, ogni strano hobby, ogni attività è perseguibile e accettata, basta essere committed. E forse è qualcosa che dovremmo imparare anche noi, conservatori e attaccati alle differenze: non dico che negli US non ci siano, però fanno di tutto per appianarle. Questa way of life si nota anche nelle "piccole" cose come il rapporto docente-studente: rilassato! Non è raro che un professore fermi un suo alunno per i corridoi, chiedendogli com'è andata la partita di lacrosse di ieri sera, e fermandosi a scherzare insieme a lui su una disastrosa verifica di qualche tempo fa. I docenti diventano quasi degli zii, dei fratelli maggiori, che per caso sono anche i tuoi insegnanti di storia, o coach di hockey. Già, altra particolarità: ogni docente in genere ricopre almeno tre ruoli diversi, a seconda delle necessità, ora guidatore, ora allenatore, ora house parent, ora professore. Qualcuno ha anche una famiglia con bambini in campus. E fanno tutto con la stessa intensa energia, un mezzo sorriso sulle labbra mentre camminano la mattina verso la mensa.

Certo, non tutto è rose e fiori. Le boarding school sono universalmente note per essere anche un ricettacolo di figli che sono un peso per i propri genitori, e i suddetti figli generalmente si riconoscono a colpo d'occhio: ostentano indifferenza, camminano molleggiando, arrivano in ritardo e bofonchiano qualcosa all'indirizzo del professore, si stravaccano noncuranti sulle sedie in classe (suona familiare?), videogiocano spudoratamente col PC durante la lezione. Sono quelli che "io neanche ci volevo venire qui", "questo posto è noiosissimo, non succede mai niente", "andiamo a fumare di nascosto"; idea non troppo furba, visto che c'è tolleranza zero riguardo all'alcol, al fumo e alle droghe, al punto che ti buttano fuori per un accendino. Circa una settimana dopo il mio arrivo, un ragazzo del mio dormitorio ha levato le tende; aveva da tempo la reputazione di essere un tipo tutto canne e trasgressione, ed è stato espulso per il possesso di una pistola a pallini. Sì, di quelle ad aria compressa. Sarà anche stata innocua, ma penso che servisse un pretesto; del resto prima o poi doveva succedere, ha commentato un altro mio dorm mate, la pistola era solo l'ultima di una serie di infrazioni decisamente più gravi, ma non colte in flagrante. Comunque il ragazzo in questione apparteneva alla genia dei rampolli recalcitranti: figlio di un magnate orientale, con più soldi che buonsenso, spedito dall'altra parte del mondo nella speranza di un cambiamento. Peccato che in genere si ottenga l'effetto opposto.

Facciamo che rimando l'argomento illegalità/proibizionismo, che merita un approfondimento!

La scuola si propone davvero come home away from home, per quelli che sanno apprezzarla e hanno fatto la scelta di venire qui. L'atmosfera è quella di una grande famiglia, docenti compresi; un terzo dei ragazzi sono internazionali, ma non per questo si formano gruppetti distinti, c'è una piacevole mescolanza di ragazzi da tutto il mondo accomunati dallo school spirit; qualcosa che in Italia neanche ci sogniamo. Davvero, qui le cose le prendono sul serio! Se può sembrare melenso, posso assicurare che non lo è: si diventa davvero parte della Husky Nation, e la fraternità si trova ovunque. È difficile descrivere l'unità, la gioiosa forza che si percepisce anche solo assistendo a una partita della squadra principianti di hockey, per esempio, e la solidarietà quasi palpabile, e il supporto emotivo degli spettatori. Ragazzi che si sgolano, incitando i loro compagni. Quanti studenti italiani si fanno un viaggio di due ore, in uno scomodissimo scuolabus, solo per vedere la squadra di baseball della scuola in trasferta? Senza contare che neanche le abbiamo, noi, le squadre scolastiche; qui i confini tra le cosiddette "materie" e le "attività extrascolastiche" sono molto più labili, per non dire inesistenti. L'idea è che se una cosa è educativa, vale come materia. Punto. Conseguenze: le materie spaziano dalle scienze alla musica, dalla letteratura all'arte visiva, dalla storia al teatro; e gli sport pomeridiani sono parte integrante del programma scolastico. Il tutto servito da professori (/allenatori) intensamente appassionati, e capaci di trasmettere quello in cui credono agli studenti.

Sembra un'utopia, vero? E invece no, c'è qualcosa che mi atterrisce, mi annichilisce, mi fa rimpiangere amaramente la cara vecchia Italia: il cibo della mensa.

No, parliamone. Va bene che gli US sono un Paese relativamente giovane, va bene che c'è la mescolanza di culture; ma un qualsiasi europeo rabbrividisce davanti a una pasta al pollo (o, più frequentemente, spaghetti), condita con una "marinara sauce" che ricorda sospettosamente il ketchup più puro mai uscito da un McDonald's. Il tutto nello stesso piatto!, e accompagnato da un bel bicchiere di cioccolata al latte. Nessuna distinzione tra primo, secondo, contorno; i più sofisticati attaccano il dessert a metà del "secondo", per una qualche strana transizione di sapori, e sbocconcellano alternando. Giuro, ci ho provato, ho assaggiato, ma evidentemente ho un blocco mentale riguardo al cibo. Però ho trovato un'ancora di salvataggio, un faro che illumina le mie pause pranzo: i burritos (per chi non lo sapesse, involtini di carne, verdure e salse) che, per grazia del preside, sono preparati sul momento dallo studente stesso, che può scegliere cosa metterci dentro. Attribuisco a queste piccole delizie il fatto che io non sia (ancora) diventato anoressico o, più facilmente, obeso. Vada detto che la maggior parte degli studenti americani che vivono on campus stipano derrate alimentari da microonde in camera propria; il mio room mate, per esempio, evita accuratamente la mensa e tira avanti a ramen riscaldato, più qualche scatoletta. Praticamente la sua metà della stanza (e parte della mia) è occupata da scatole di Gatorade, Ramen Bombs e altri generi confezionati che non riesco a identificare. Infine i più fortunati, forse, sono i day student, ovvero gli studenti che non vivono on campus e hanno una confortevole casetta a cui ritornare per i pasti. Dico forse perché, conoscendo la cucina americana casalinga, non si è mai sicuri delle abilità culinarie di chi è ai fornelli; perché può darsi, per esempio, che anche un'amorevole madre non si faccia troppi scrupoli a riscaldare al microonde ogni singolo pasto. Non è raro come potreste pensare. Onestamente, tra tutte, non so quale sia la soluzione migliore...

E su questa cupa nota chiudo il post. Next on!

14 marzo 2014

Caffè e una nuova vita

11 febbraio 2014

Atterro, stanco morto. Aspetto mezz'ora al ritiro bagagli oversized del Logan per la mia chitarra, per poi scoprire che era sul nastro con le altre valigie. Sentendomi un po' rimbecillito, passo gli ultimi controlli (ultimi di una lunga serie... al controllo passaporti mi sembra di essere schedato come un criminale) e trovo un tipo burbero, barba bianca e stivaloni, con un cartello col mio nome. Aspetto insieme a lui un'altra oretta almeno per altri due internationals che non si degnano di atterrare, e ho il piacere di degustare il mio primo caffè americano full-size, pensando di averne davvero bisogno (un errore che, giuro, non ripeterò. Italiani, qualsiasi bevanda ordinate negli US, chiedetela small e non stupitevi se comunque il bicchiere è abbastanza grande da contenere un pieno di benzina). La neve fiocca dalle vetrate dell'aeroporto, risaltando contro il nero della notte inquinato dal giallastro dei lampioni.

Non appena si radunano tutti, saliamo a bordo di uno scuolabus (come quelli dei film!), tutto serigrafato con i colori della scuola, e chiacchieriamo del più e del meno per un'ora e quarantacinque minuti esatti, il tempo per arrivare a New Hampton da Boston. Sbarco verso le 11, buio pesto e freddo da non crederci; ormai vedo leggermente doppio dal sonno. L'autista mi consegna solennemente una chiave e mi lascia davanti a una casetta bianca, immersa nella neve: Ebbels House (per ora non descriverò Ebbels, penso che meriti un post tutto suo); entro, mi presento agli house parents, e faccio in tempo a scambiare due parole col mio nuovo room mate prima di crollare sul letto a castello.

12 febbraio

In barba al jetlag mi sveglio alle 8 la mattina dopo, il sole che filtra dalle tendine. Ci metto un po' a capire dove sono, il tempo di una doccia e di infilarmi nei vestiti; poi un dorm mate ha pietà della mia espressione sperduta e mi guida verso la direzione. Qui comincia il tour: nel giro di tre ore visito tutto il campus, faccio colazione e pranzo, vengo inserito nel database, messo online e provvisto di un iPad nuovo fiammante, istruito sull'uso delle tecnologie on campus, presentato a metà dei docenti (senza ricordare un singolo nome), e preparato in ogni modo possibile per iniziare il mio semestre. Da bravo italiano scelgo le materie d'obbligo, ma non resisto alla tentazione di occupare due dei miei sette blocks (ovvero classi) con, rispettivamente, recitazione e musica. Dopotutto, sono qui anche per questo! Poi mi indirizzano in infermeria dove mi spiegano pazientemente che non posso tenere medicine in camera, per rischio di furti tra gli studenti... che ci crediate o no, a qualcuno nel corso degli anni è venuto in mente di prendere delle medicine di un suo compagno di stanza, con l'intenzione di divertirsi un po'. Provo comunque a obiettare che è difficile sballarsi con le pillole per la prostata, ma non vogliono sentire ragioni, quindi torno in camera, nascondo gli antibiotici d'emergenza in fondo al cassetto meno accessibile e porto all'infermiera le medicine che ho denunciato. Ecco, questa si è poi rivelata una delle migliori idee che abbia mai avuto, perché un paio di giorni dopo mi hanno raccontato una storia grottesca di uno studente con 40 di febbre accusato di fingere e rispedito in classe. Bene, scongiurato il rischio di combustione spontanea. Moving on!

Verso l'una sono di nuovo in direzione. Mi chiedono come sto, se mi piace la scuola, se mi sto ambientando (dopo quattro ore?!), se ho bisogno di qualcosa; sto bene, solo un pochino cotto dal fuso, la scuola è stupenda, l'ambiente mi piace un sacco, dovrei essere a posto, dico; al che, mi mettono in braccio una cassa di cose utili (come un albero da scarpe) e mi rispediscono in dorm col consiglio di riposare un po'. Riesco a figurarmi come dovevo sembrare, sdraiato sul divano della sala comune: una specie di profugo, sguardo allucinato (prima di addormentarmi) e bavetta alla bocca come minimo, però ho avuto il tempo di metabolizzare il cataclisma di novità che mi si è appena presentato davanti.

Che dire?, la prima impressione che ho è che mi adatterò alla svelta. Fa tutto parte dell'esperienza: svegliarsi in un posto nuovo, senza conoscere nessuno, i ragazzi che passando ti guardano un po' sorpresi; e tu rispondi con un sorriso. Forse è troppo presto, ma comincio a pregustare la vita un po' bucolica che mi è sembrato di percepire qui intorno, i giorni regolari scanditi dalle lezioni, i pasti, le attività pomeridiane, lo svago dopo il tutto. Non si respira monotonia, ma tranquillità.

E mi addormento serenamente, pensando all'indomani.


In tutta onestà questa l'ho scattata la sera del secondo giorno, però è bellina, no?